Sarah Vanhee raccoglie la tradizione della miglior Marina Abramović

Sarah Vanhee raccoglie la tradizione della miglior Marina Abramović

L’artista belga e la sua “trash pièce” incantano la Pelanda. Lei è Sarah Vanhee, un’artista belga che per un anno ha conservato i suoi rifiuti non organici, custodendoli e catalogandoli gelosamente in circa quaranta scatole di cartone “da trasloco”. E di traslochi si parla nel suo Oblivion, presentata allo Short Theatre 2018. Ecco dunque che negli spazi dell’ex mattatoio romano avviene l’insolito matrimonio fra le mura di una passata mattanza e il presente di spazzatura sempre più ingombrante, che crediamo di smaltire solo perché la “traslochiamo” in un imprecisato altrove. E’ proprio da questo originalissimo punto di vista che si innesta la performance della Vanhee, scevra da qualunque moralismo ecologista, il suo discorso ruota attorno ad un’inversione rivoluzionaria che diventa quasi una dipendenza: conservare lo scarto, quello che celiamo all’occhio, credere di perderlo, perché “inutile”, ormai “invisibile” e lasciarlo poi restituirci tutta la sua bellezza in una ricomposizione lenta e minuziosa. Compare così dopo quasi tre ore, l’enorme tappetto di rifiuti prodotti da un singolo essere umano nell’arco di una manciata di mesi, una danza silenziosa di oggetti che ebbero una funzione e ora non ce l’hanno più, o forse sì, ma completamente diversa. Siamo noi a guardarla in modo insolito, incantati dalle parole di Sarah, che racconta il gigantesco lavoro di raccolta, studio, analisi, fra ironia e tormentosi girotondi, inseguendo il fuggevole concetto del “necessario”. E’ un bagaglio molto più grande di quanto potremmo immaginare. Quante trash-words, discorsi, testi, quanta presunta “arte” da spazzatura? La wasteland di Sarah mostra pian piano la sua anima perturbante; quanta strada fatta dall’omonimo poemetto di Elliot al videogioco post-apocalittico che pure ne porta il nome, passando per il rap “sporco” di Kate Tempest e il suo dramma dello spreco, fino forse alla Venere “stracciona” del Pistoletto. Eppure non sono questi i riferimenti artistici della Vanhee e nemmeno c’è di mezzo la Abramović di cui pure oseremmo dire abbia raccolto e reinventato un’eredità difficile, ma il gioco delle sinestesie e degli incroci si attiva magicamente, mentre lei dipana vasetti vuoti del suo adorato yogurt greco e bottiglie di plastica. La plastica giustappunto, universo di polimeri dai nomi complicati, ostinatamente resistenti all’eco-sostenibilità, eppure così attraenti e irrinunciabili nei loro pack multicolor, Sarah li “risemina” su un pavimento che non può accoglierne le radici. Quando è completo il quadro di questo tesoro di rifiuti, è chiaro l’intento di spingerci a re-immaginarci in un luogo-non luogo pieno di tutto quello che avevamo scartato: non solo oggetti, ma anche pensieri, suoni, odori, azioni, idee, relazioni. Questi “rifiuti” tornano ad appartenerci, forse non sono più spazzatura, non del tutto. Una performance unica, emozionante, in grado di riattivare i più reconditi o dimenticati meccanismi interiori che ci riportano alla memoria qualcosa che è stato nostro e il motivo per cui adesso non lo è più. Ed è sul finale che in fondo Sarah “accende” la nostra rete neuronale, proprio quando le luci calano e la coltre di spazzatura spiaggiata emerge dal baratro dell’Oblio appunto. Sono i faretti UV a far risaltare il bianco, ora quasi fluorescente di quei tanti vasetti usati, che adesso sembrano davvero “fiorire” come primule dal nero abisso della dimenticanza. Produzione CAMPO, grande personalità tanto nella performer che nell’opera, che ha coinvolto un numero crescente di professionisti, un lavoro di ricerca raro, accurato, dove ogni dettaglio, dal progetto audio alle luci, passando perfino per l’”abito di scena” dell’artista, è studiato con l’invidiabile attenzione che sfugge a molto, troppo, teatro contemporaneo. Niente retoriche anti-spreco o stantii moniti al riuso, solo la semplice evidenza di un mare di idrocarburi complessi che forse finiranno tristemente nel ventre di qualche balena del Pacifico. Semplicemente perché l’abbiamo comprata noi quella bottiglietta. Tutto qui.

Tristan

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